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Nicoletta Magnani © 2023
Troppo tempo è passato dalle mie ultime parole.
Ma oggi, che guardo le vecchie foto pubblicate, i ricordi piovono dal cielo come la pioggia che uccide il sogno di primavera di ieri. Ascolto il tempo. E aspetto.
Arriveranno altre immagini e nuove parole, caro diario.
Ed ecco Marzo.
Siamo già al 21, posso dire di essere sopravvissuta all'inverno.
Un inverno arrivato dopo uno strano autunno, entrato nei miei giorni quasi di nascosto, come il glutine in una cena al ristorante proprio ad inizio ottobre e che poi mi ha fatto stare male per una settimana. Un autunno lieve, di temperature miti e giornate di sole. E di accadimenti.
Come una mostra a Milano. E un piccolo concerto, con un’atmosfera molto bella ed emozionante, in cui ho rivisto D, un amico che vive in brasile da più di dieci anni e che è venuto a sentirmi, presentandosi di sorpresa.
Ottobre continua, sempre un po’ come di nascosto, quasi fingendosi ancora settembre. Intanto, tra gli alberi, l’autunno avanza. E le foglie si colorano di tinte vivaci che precedono la morte.
Il grande faggio del mio vicino si mostra in tutta la sua rossa spettacolarità.
Poi c'è novembre. Con la partenza di una delle mie amiche più care, V., che va in India per sei mesi dall'altra delle mie più care amiche, che abita là già da tempo.
E la notte della festa di saluti, tanto per movimentare un po' il mese, vengono pure i ladri in casa: cassetti e armadi di roba sparsa per cercare chissà quali tesori nella incasinata dimora di una artista.
E in effetti, l'unica cosina preziosa che c'è, la trovano: una minuscola collanina regalatami da mia zia poco tempo prima di morire. Il suo più grande valore, il ricordo. E’ in occasioni come queste che ti chiedi perché legare ricordi e affetti a cose e persone che poi si possono perdere o essere rubate. Ma sono solo rabbia o dolore di certi momenti ad insinuare domande senza senso. Poi, passato il picco di sconforto, pensi che in fondo è un’occasione per fare una cosa che altrimenti non avresti proprio fatto: rimettere in ordine improbabili ed affollatissimi cassetti.
E ti rendi conto che i ricordi rimangono con te comunque, la collanina era solo un’occasione (oltre che un oggetto bello).
Dicembre è pieno di luci intermittenti in giro nella notte e di addobbi natalizi che contrastano con un cielo particolarmente azzurro di giornate ancora non troppo fredde. Per fortuna sono visibilmente diminuiti gli orribili Babbo Natale che come ladri si arrampicano sui balconi o penzolano un po’ flosci da finestre, tettoie e grondaie appesi ad una corda.
Ad inizio mese un amico mi trova un piacevole ingaggio musicale in un ristorante che non conoscevo, la Locanda del Chierichetto. Una bella serata in cui riesco a mangiare addirittura un fantastico risotto e un ottimo dessert, inaspettatamente graditi anche al mio pancino celiaco.
Prima che la festa cominci e arrivino gli ospiti, tengo un po’ compagnia a due personaggini natalizi.
E osservo la sala ancora vuota, perfettamente apparecchiata.
Pochi giorni dopo si va su in cima al campo dei fiori per pranzare con un amico, L., col quale le conversazioni si prolungano ore ed ore e sono sempre molto interessanti. E’ un sabato, il sole splende e alla Pensione Irma quasi non sembra inverno.
Cominciamo un aperitivo. Io prendo un semplice e colorato crodino. Che finisco subito perché ho sete.
Il bicchiere, presto vuoto, rimane sul tavolo mentre noi chiacchieriamo. Ed io ogni tanto mi perdo ad osservare i riflessi nel vetro dei raggi che entrano dalla finestra e colpiscono il vetro poggiato sul rosso del legno del massiccio tavolo.
Poi ci spostiamo nella sala per il pranzo. In principio siamo solo noi, in seguito arriverà una coppia.
Mentre il Natale incalza sempre più e il supermercato si riempie di panettoni, pandori e torroni, durante una delle tante normalissime spese, procacciando le verdure al bancone, scorgo una cesta con qualcosa di assolutamente mai visto prima e di cui neppure conoscevo l’esistenza: le carote nere. Sono lunghissime e sottili, piuttosto rugose. Una volta sbucciate sono ancora più nere (le mie dita, pure).
Se poi vengono usate come ingrediente per una preparazione a scelta, inutile dire che prevaricano poco democraticamente qualsiasi altro colore. Io ho fatto una piccola zuppa di verdure. Diventate tutte inevitabilmente ed ugualmente nere.
In piazza Monte Grappa il grande albero è già stato addobbato, per fortuna in modo un po’ più elegante e sobrio rispetto all’anno passato.
Forse è ora che prepari anche il mio di casa, tutto bianco. Anche perché comincio già ad avere pronti alcuni pacchi e li posso sistemare sotto.
A lavoro finito, me lo guardo. Nell’atmosfera luminosa del giorno.
E in quella un poco più magica della notte.
Nel frattempo prendo una decisione, ormai resasi necessaria, rifare la tastiera al mio violoncello. Prendo accordi con A., il mio liutaio, per portarglielo.
Sono giorni difficili, senza poterlo neppure toccare, per più di una settimana. Ma quando poi lo vado a riprendere, lo riporto a casa e lo provo, scopro che ne è valsa la pena.
E così a metà mese sfoggio la tastiera nuova per le piccole parti di cello dei miei pezzi, che faccio durante un concerto in uno showroom con mostra d’arte.
E’ quasi Natale.
Vado a Reggiolo per la cena della vigilia con la mia famiglia.
Arrivare al paese in questo periodo è ancora più bello perché la strada di ingresso punta dritto al castello, addobbato di luci per le festività.
E’ il 23 dicembre. Sono partita un giorno prima per poter essere presente alla presentazione di un libro di cui ho fatto la copertina.
Nella sala del Consiglio Comunale quella sera ci sono tante persone, molti volti che riconosco nonostante il passaggio inesorabile degli anni.
Ma la cosa più dolce è sicuramente poter riabbracciare M., la mia prima insegnante di musica.
Poi arriva la sera della Vigilia. La cena è sempre bella, a casa di mia sorella, E., che insieme al marito ha preparato un piatto fantastico, pieno di cosine deliziose. E tutte rigorosamente “gluten free”.
La vera sorpresa però è quella che mi fa col suo regalo. E’ riuscita addirittura a convincere mia mamma a non lasciarsi scappare nulla, nei giorni precedenti. Così, mentre apro il suo pacchetto (che rimane un segreto), penso che anche io voglio farle una bella sorpresa (e la notte stessa, prima della mattina di Natale in cui torno a Varese, chiedo a mia mamma di farmi vedere le vecchie foto del matrimonio di mia sorella per poterle fare uno dei miei quadri /ritratto).
Il giorno di Natale passa senza traumi (se non per l’alzataccia e il viaggio al mattino per tornare a casa); ma la mia mamma è con me e si ferma su al nord per qualche giorno.
Nel pomeriggio di Santo Stefano il sole domina imperterrito. Così, stanchi degli interminabili pasti e del cibo dei giorni precedenti, andiamo a fare una passeggiata nei giardini sul lago, a Lugano.
Tra cigni, alberi e strani personaggi passa il piacevole pomeriggio. Il sole invernale è morbido e basso; le ombre, lunghe. Camminiamo, chiacchieriamo, guardiamo e ci fermiamo a fare qualche foto.
Alcuni giorni di vacanza. E finalmente di nuovo qualcuno dei miei adorati vagabondaggi notturni in auto con P.
Imboccando una stradina in un bosco vicino al lago di Varese, ci troviamo d’un tratto in un luogo dal nome davvero poco locale.
L’ultimo interessante evento di questo dicembre è – anche se a qualcuno potrebbe sembrare pressoché irrilevante - l’acquisto all’IKEA di un fantastico personaggio luminoso che d’ora in poi accompagnerà l’inizio delle mie notti, Spoka.
A Gennaio invece comincia l’inverno vero e proprio, decisamente più freddo. E arriva la neve.
Ma prima, c’è una piacevole gita domenicale a Torino da mio cugino A., che ho appena saputo diventerà presto papà.
Sono nella periferia della città e aspetto che mi venga a prendere. Vicino c’è una specie di centro di ritrovo, frequentato da gente che dona un po’ di “vita” ad un luogo altrimenti piuttosto “morto”, la domenica. E pure piuttosto squallido (basta guardare il marciapiede).
Ci sono persone di tutti i colori…
e anche di tutti i vestiti…
Poi arriva A. e andiamo a farci una passeggiatina in centro.
La mole è sempre bella. Si staglia sull’azzurro intenso del cielo.
Camminando sotto i portici noto posteggi di bici sempre più bizzarri.
La sera si cena a casa di A. e V. che si prodigano nella preparazione di un fantastico purè di patate.
Il vino ungherese decidiamo invece di berlo un’altra volta. Abbiamo l’impressione che sia quasi meglio da guadare che da ingerire.
Per andare a prendere l’autostrada del ritorno, il navigatore opta per un percorso cittadino. Forse vuole mostrarmi Torino by night.
Sosta ad uno dei semafori. Rosso.
Verde. Si riparte.
E si continua la traversata della città.
Poi comincia il periodo delle nevicate.
E una piccola visita sulla soglia di casa, che lascia traccia grazie allo strato di neve.
Da quel momento comincio a lasciare ogni giorno un po’ di pappa per gli uccellini infreddoliti.
Febbraio passa sciapo e silenzioso. Come quasi ogni anno. E’ un mese poco interessante, come di transizione.
Io me ne sto per lo più in casa, lavoro al quadro per mia sorella.
Con lenti e pazienti progressi, spruzzate di fissativo e strati nuovi di carboncino bianco, ogni volta quasi come da capo, il disegno piano si staglia sulla tela nuda.
E quando è pronto torno al paesello per portarglielo.
La rocca non ha più gli addobbi e mi si presenta nella sua quotidiana bellezza di mattoni antichi.
Mia sorella appende il quadro in casa il giorno stesso; sono contenta, le piace molto.
E la mia sorpresa è riuscita.
A fine mese la neve s’è già sciolta quasi tutta e sta tornando il bel tempo.
I passaggi all’inizio dell’autostrada in uscita dalla città, da cui si vede il lago, al tramonto sono sempre magici.
Marzo inizia con l’arrivo di quattro “Carletti” (giunti dopo un disperato appello celiaco di chi come me i Sofficini – in cui li regalano – non li può mangiare!).
E con un concerto bellissimo grazie ai biglietti regalati da E.: Mario Brunello alla Sala Verdi di Milano.
Si parte insieme, una domenica pomeriggio. Un periplo dei dintorni di Varese a recuperare tutti - in totale in macchina alla fine siamo in cinque – e poi si imbocca finalmente l’autostrada.
Il viaggio stimola ad E. qualcuna delle sue famose “massime”, che non sempre è bene ripetere.
Arriviamo, entriamo e raggiungiamo i posti assegnati.
E. ed R. sfogliano l’opuscolo con aria da musicisti intellettuali.
Ma dopo pochissimo, ben presto riemerge la vera natura, come dimostra il ghigno di E. che ha già adocchiato un paio di signore interessanti.
Io guardo la sala (è la prima volta che ci entro) riempirsi di gente e il palco ancora vuoto, che sembra come consapevole dell’attesa di qualcosa di bello.
Mi perdo ad osservare il soffitto, dimenticando per qualche istante la folla seduta sotto di esso.
Poi entra l’orchestra, il violoncellista, con uno strumento del ‘600. E il miracolo della musica ha inizio. Forse già un annuncio dell’imminente Primavera.
Lunedì. Vado a prendere il treno, per Milano.
Ho tutto per il viaggio, iPod, libro e bottiglietta d’acqua minerale.
Entro in stazione e trovo una lunga coda alla biglietteria, cosa che non mi sarei aspettata. Principalmente studenti e un po’ di gente multirazziale. Ma non faccio molto caso alle persone, sono concentrata su orari, tempistiche e pensieri per quello che devo fare. Sto andando ad allestire la mia mostra che inaugurerò mercoledì. RD, la mia critica è già a Milano, ci si trova direttamente sul posto.
Una volta in possesso del biglietto mi giro per andare verso i binari e, ripercorrendo al contrario la coda ormai lunga alle mie spalle, vedo una persona che conosco. Ci salutiamo. Facciamo il viaggio insieme, parlando di argomenti vari che spaziano dal sociale allo pseudo politico, nulla di personale, insomma. La conversazione accorcia comunque il tempo del viaggio e rende inutile il mio kit da treno, fatto di musica e parole scritte. Unica eccezione, ora più necessaria che mai, la piccola bottiglia di acqua naturale.
Il treno arriva in stazione. Porta Garibaldi.
Un saluto veloce e ognuno per la sua strada.
Mi fermo un poco sul marciapiede all’uscita dell’edificio, ristrutturato qualche anno fa e molto diverso da quello vecchio impresso nella mia mente, per fare una telefonata.
Poi anche io mi infilo nella terra, come la gran parte delle altre persone che escono dalla stazione, per andare a prendere il metrò.
Fermata Sant’Agostino, manca solo un piccolo pezzo di strada a piedi.
A Milano il verde trova spazio come può. A volte qualche abitante gli dà una mano. Come su questo piccolo terrazzo.
Eccomi. Zona Tortona. Ci abita una mia amica. Non molto distante dal luogo della mostra, in realtà.
Sono le tre di pomeriggio, qualche locale è già aperto, ma c’è una sensazione come di attesa del fermento serale. Per ora vigono preparativi. E consegne. Un furgone di beveraggi vari occupa colorato l’incrocio.
Mi è sempre piaciuto in particolare un aspetto di Milano, i continui stimoli visivi, le situazioni, le cose bizzarre che colpiscono i miei occhi e la mia fantasia. Anche quando possono sembrare così banalmente quotidiane, come queste due biciclette, a loro modo poetiche nella tenera differenza di dimensione.
Arrivo da Castelli, RD e i suoi riccioli biondi sono già dentro che mi aspettano sorridenti.
Ci mettiamo subito al lavoro.
Prima cosa, andare a recuperare i quadri portati a Milano la sera prima ed ora tenuti in ostaggio in un ufficio del proprietario del locale.
Il marciapiede del percorso che porta a quella sede è lastricato di strane sagome di forchettine bianche.
Cominciamo ad aprire gli imballaggi e a sistemare le tele sui tavoli, a quest’ora vuoti. Insieme si decide dove e come collocarle. La scelta non è mai semplice. I quadri, come le persone una volta venute al mondo, hanno una loro personalità che non dipende più da chi li ha fatti. Raccontano cose segrete che appartengono soltanto a loro e a chi li guarda. E che a volte cambiano nel tempo.
C’è un ragazzo paziente e disponibile che ci aiuta nelle operazioni pratiche; per fortuna il sistema di cui sono dotate le pareti è facile da usare e permette di non perdere troppo tempo per l’allestimento.
Qualche ritocco, piccoli pesi da sistemare qua e là dietro i telai per bilanciare le tele che spesso pendono da un lato; facciamo fare al ragazzo qualche modifica alla posizione dei fari in modo che tutto sia illuminato al meglio; sistemiamo inviti e biglietti da visita sul bancone.
Ora. Possiamo fermarci ad osservare il nostro lavoro.
Il quadro immagine dell’invito ha una parete tutta per sé. E’ il mio primo lavoro su tela nuda e l’ultimo in ordine di tempo. Così, come col cucciolo ultimo arrivato, si sente un’apprensione maggiore. Perché ancora ci appartiene, un po’ di più degli altri.
Un altro quadro ha un posto – e un faretto – tutto suo. Quello dietro al bancone, dove mi racconta RD esserci stato, fino a poco prima, un grande orologio.
Nel frattempo è arrivato il proprietario. Parliamo un po’ con lui, gli faccio vedere le mie opere e gli spiego alcune cose sulla mia tecnica. Sapute le quali mi consiglia – vivamente – di preparare qualcosa che spieghi alle persone che entreranno a guardare il fatto che le figure sono disegnate a mano soltanto coi carboncini. Penso che preparerò un poster con foto di fasi della lavorazione di uno dei disegni.
Concordate le ultime cose per la sera dell’inaugurazione, RD ed io ci congediamo dal proprietario e dai ragazzi del locale e ci incamminiamo verso la stazione di metrò di Porta Genova.
Un ultimo sguardo ai miei lavori da fuori, attraverso la vetrina del locale, come per un silenzioso e tranquillizzante arrivederci.
Lungo la scala del ponte di metallo che passa sopra i binari mi giro a guardare un pezzetto di città dall’alto.
La luce già più scura del sole fa oramai pensare al tramonto.
Il ponte di metallo verde è calpestato da masse di persone che rientrano dal lavoro, come piccoli soldati che marciano verso una serata a loro disposizione. Quasi si sentono i pensieri più dei passi e delle voci stesse.
Ma io giro la testa verso l’esterno.
Fitti cespugli di prato si sono impossessati dei lunghi binari metallici e delle traversine.
Cosa curiosa che questi spazi, accessibili quasi solo ai treni, siano tra i rari luoghi “verdi” di Milano.
Disallestire una mostra, pur piccola che sia, lascia sempre tra le labbra come un gusto scuro. Un velo di tristezza permea gli involucri per imballare, lo scotch e le coperte caricati in macchina per andare a recuperare le opere.
Fa ancora caldo in questo fine settembre, la piazzetta del comune è quasi vuota. Il sole segna sul muro con la meridiana la sua ora tardo mattutina.
Ho dovuto anticipare l’appuntamento perché nel pomeriggio devo portare il violoncello dal liutaio per un problema.
Entro nella sala dove sono esposti i quadri. Li guardo appesi per un’ultima volta. Sento. Il passaggio della gente che c’è stata quando non c’ero. I biglietti da visita sul tavolino sono scompigliati, frugati da qualcuno di passaggio, come le carte di un mazzo da gioco a fine partita. O un po’ come fa il vento con le foglie d’autunno che s’accatastano in un angolo e si mescolano senza allontanarsi.
Ma l’autunno non è ancora arrivato, quest’anno. La saletta da tè non ha ospitato gente infreddolita che si scalda le mani con la tazza calda. Qualche aperitivo, sicuramente. E qualche caffè in compagnia.
Non è la prima volta, nel tornare a riprendere le opere dopo un po’ di tempo, che ho come l’impressione che i quadri si siano impercettibilmente modificati agli sguardi della gente. Quasi che le persone lascino qualcosa di sé. Con la proprio presenza, anche se breve. Coi pensieri e le emozioni, che sfuggono in silenzio e di nascosto dai loro occhi.
La proprietaria è nel frattempo arrivata in pasticceria e mi porta un bellissimo album di carta color avorio con la copertina in pelle, in cui lasciare la mia firma, testimonianza del mio passaggio.
Scritta la dedica e lasciata la mia firma, comincio a togliere le tele appese e ad imballarle piano piano, con cura.
Le pareti sono inspiegabilmente più vuote di quanto lo fossero state prima che ci appendessi i miei lavori. Anche questo è uno strano fenomeno. O più facilmente solo uno sciocco sentimentalismo.
Nel frattempo, richiamato dai vetri che occupano gran parte dei due lati della sala, il caldo s’è fatto sentire.
I quadri sono già imballati e caricati in macchina.
Mi siedo al tavolino, per una pausa di caffè freddo shakerato, come quando sono venuta a montare la mostra. Ma il bicchiere stavolta è diverso e il caffè sembra addirittura meno buono.
Così mi distraggo a guardarmi intorno. Una ragazzina annoiata dalla conversazione delle parenti, si alza dal tavolino a fianco e in modo rozzo fa strani, scoordinati balzi per spaventare un paio di piccioni. Uno vola via, l’atro si allontana a piedi, ma senza agitarsi troppo.
I piccioni qui sono così diversi da quelli che vedevo a Milano, tutti spennacchiati e spesso con una curiosa targa che assegnava loro un numero. Forse, di manutenzione.
Il mio sguardo curioso fruga tra le cose che mi circondano e si ferma su alcuni vasi di bellissimi ciclamini, poco dietro la mia sedia.
Torno a casa, scarico i quadri. Un pranzo veloce e si riparte.
Poco dopo, il mio violoncello è sul “lettino” del liutaio, come un bravo paziente, in attesa del verdetto.
Ci sono giornate in cui l’azzurro del cielo sembra penetrarti per osmosi la pelle. I pensieri diventano colorati e frizzanti, tutto sembra luminoso.
Poi ci sono giorni in cui lo stesso azzurro è solo un colore. Che quasi infastidisce il tuo senso di scuro, con la sua luce ossessiva. Nulla è. Come invece il cielo, ad un primo sguardo, potrebbe far pensare.
Però ci provi, vai in centro, ti fai una passeggiata.
Così è.
Arrivo nella piazza. Non ho voglia della gente. Ancora meno dei rumori della strada. Mi incammino verso la parte meno frequentata della città, quella un poco misteriosa e sempre inspiegabilmente vuota, seppure la più bella.
In questo primo pezzo, che ancora non si estranea completamente dal vivo della piazza principale, domina il campanile. Sembra così imponente. E solo. Staccato dal resto degli edifici, isolato.
E pure “copiato”, probabilmente già da anni, da un altro strano campanile che svetta nella piazzetta, il massiccio ripetitore che sovrasta in modo discutibile un lato della stessa piazza.
Mentre mi perdo per un attimo ad immaginare quale bizzarro dialogo si possa instaurare tra la voce bronzea del campanile e quella silenziosamente zeppa di parole di un ripetitore, i miei passi entrano nei vicoli. E nell’ombra. Dove l’azzurro resta solo un coperchio che chiude al di sopra della testa i miei pensieri.
Mi giro. Riguardo il campanile, da dietro.
La parte posteriore del duomo mi sorprende con una piccola porzione di edificio che sembra una faccetta. Gli occhi sono aperti, lo sguardo un po’ malinconico. Dietro una benda grigia e ruvida c’è sicuramente una boccuccia, un poco triste.
Esattamente sul retro dell’edificio, una porta è aperta. Irresistibile spiare l’interno. Come un’intimità svelata, un poco oltraggiata dall’apertura prolungata della porticina, l’interiorità della chiesa si svela in un sospiro che sa di vecchio incenso. La luce che giunge da una delle porte anteriori sul lato opposto, filtra da vetrate colorate e si riflette sul lucido delle panche di legno. Bagliori nel buio dell’interno, come piccoli suoni uditi dai miei occhi, che cercano tregua dall’azzurro insistente del cielo.
Riprendo a camminare, lontana dalla gente, dalle voci del pomeriggio. E forse ormai anche dai miei pensieri. In questi vicoli ci sono piccoli resti di uno scarno passato medioevale, di mattoni che ornano spazi minimi. E preziosi.
Come preziosi sono alcuni negozietti. Quasi nascosti. E per questo ancora più belli.
Ma oggi neppure gemme, pietre dure e colori bastano. Sotto ai miei piedi urla un tombino posizionato male. Non so bene perché, ma è una cosa sciocca che mi crea una sorta di fastidio. Come se qualcuno avesse lasciato in un puzzle finito e perfetto un pezzo storto, odiosamente sghembo. Forse,purtroppo, è solo nevrosi. Visiva.
Proseguo. E arrivo in un’altra piccola piazza, ancora più celata. E capisco.
I desideri non si realizzano. Perché qualcuno ha chiuso il pozzo.
Sul coperchio, un sacco di scritte. Che non leggo. Sono. Soltanto lettere. Ferme sulla pietra e sul metallo. I pensieri, i desideri, oggi, non posso andare. Oltre.